Il consulente tecnico d’ufficio in ambito civile
di
Tonino Addesse
La consulenza tecnica si introduce in modo incidentale nel processo ed è essenzialmente un valido mezzo del Giudice finalizzato a formare il suo convincimento, dopo aver colmato le sue lacune su conoscenze tecnico–scientifiche indispensabili per valutare aspetti particolari della controversia.
La consulenza tecnica può costituire fonte diretta di prova utilizzabile come ogni altra prova ritualmente acquisita nel processo, nel caso al consulente è conferito l’incarico di accertare fatti non altrimenti accertabili (Cass., sez. III n. 13401, 26 aprile – 22 giugno 2005).
Quanto sancito dal primo comma dell’art. 61 c.p.c. «Quando è necessario, il giudice può farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica»[1] dà la parvenza, invece, che la funzione del consulente sia limitata a quelle di uno specialista con particolari cognizioni tecniche con il compito di fornire al Giudice relazioni e pareri non vincolanti in quelle materie ove il giudice non è competente.
In realtà la formulazione dell’art. 62 c.p.c. consente al consulente tecnico di compiere indagini relative a quanto commissionato dal Giudice e ne amplia, quindi di fatto, la sfera dei compiti e dei poteri.
L’indeterminatezza di questo istituto sotto il profilo dell’inquadramento giuridico si proietta, dunque, nella sua fluttuazione tra una attività di accertamento, e quindi di approvvigionamento di fatti processuali, e una funzione solamente di valutazione dei medesimi. Tecnicamente e secondo la tradizione, si nega che la consulenza tecnica rappresenti un mezzo di prova, in quanto è escluso di conseguenza la reclamabilità al collegio ex art. 178 c.p.c. dell’ordinanza che dispone la stessa.
Non si può però nello stesso tempo negare che attualmente la CTU sia in realtà un mezzo per introdurre nel processo civile sia valutazioni di fatti già acquisiti ma anche elementi probatori da porre a disposizione del Giudice per la formulazione del suo convincimento.[2]
A questo punto sorge spontaneo porsi alcuni interrogativi circa i limiti dell’attività del consulente tecnico, ove cioè può legittimamente spingersi la sua attività nell’accertamento di fatti ulteriori e idonei a formare il convincimento del giudice, oltre che nella valutazione di elementi già prodotti e provati delle parti. Esistono in tal senso regole processuali che demarcano i limiti di tali acquisizioni? Siamo in presenza di una riduzione progressiva dei poteri di allegazione e prova delle parti?
Nel rispondere a simili domande non possiamo esimerci dal considerare il principio dispositivo del processo, il principio dell’imparzialità del giudice, il principio del contraddittorio e del giusto processo.
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Nello specifico, il sistema processuale civile italiano è basato sul principio primario che sancisce che il processo nasce e si sviluppa su impulso di parte e viene definito in funzione delle prove fornite delle parti in causa a fronte della richiesta del soggetto che fa istanza di tutela del proprio diritto o a fronte delle eccezioni formulate[3].
L’analisi degli atti e i documenti prodotti deve essere effettuata in ossequio al principio del contraddittorio fra le parti, le quali devono trovarsi, anche nel caso specifico delle operazioni peritali, sullo stesso piano e nelle stesse condizioni difensive. In questo senso è opportuno chiarire che i poteri istruttori del Giudice restano un’eccezione poiché generalmente non vi è la possibilità per lo stesso di ordinare accertamenti d’ufficio sugli elementi posti a fondamento delle asserzioni delle parti; la consulenza tecnica, quindi, non può essere impiegata per provare fatti che sarebbero dovuti essere verificati dalle parti impiegando i mezzi istruttori previsti dal codice, come stabilito dalla sentenza della Cassazione, sez. III. N. 7097 del 6.4.2005. In tal caso, quando il consulente è chiamato a dare una valutazione dei fatti allegati dalle parti, viene comunemente denominata consulenza deducente.
Al fine di fissare l’effettiva valenza probatoria della consulenza tecnica, appare indispensabile cercare di chiarire il più possibile quali siano i limiti entro i quali è esatto confermare che la consulenza tecnica costituisce un mezzo di prova, in deroga ai principi processuali sopra citati.
In definitiva, si può dire che la consulenza tecnica può costituire fonte oggettiva di prova o vero e proprio mezzo di prova («c.d. consulenza percipiente»[4]) se risulta essere l’unico mezzo di accertamento in situazioni verificabili esclusivamente tramite specifiche cognizioni tecniche che la parte onerata non sarebbe in grado di provare. «In passato la consulenza tecnica c.d. percipiente non era ammessa dalla giurisprudenza, in considerazione del fatto che compito del consulente, quale ausiliario del giudice, era quello di completare la valutazione degli elementi di fatto, dedotti nel processo senza poter ricercare altri elementi di fatto. In seguito, sempre la giurisprudenza, ha mutato indirizzo ammettendo la possibilità che l’attività del consulente si spinga fino alla formulazione di un parere tecnico e/o nell’acquisizione di dati. Ex multis, Cass. sez. lav. 24 marzo 1987, n. 2849, in Giust. Civ. Mass, 1987, fasc. 3, secondo la quale la consulenza tecnica, se generalmente disposta per fornire al giudice la valutazione di fatti già probabilmente acquisiti, può tuttavia costituire fonte oggettiva di prova quando si risolva in uno strumento, oltre che di valutazione tecnica, anche di accertamento di situazioni di fatto rilevabili solo con ricorso a determinate cognizioni tecniche»[5]
È importante ribadire, perciò, che la consulenza tecnica va in deroga a quanto sancito dall’art. 2697 c.c.[6] e al principio dispositivo del processo solo in considerazione della difficoltà di accesso alla prova di determinati fatti. L’indicazione della citata giurisprudenza, dunque, va nella direzione di offrire una soluzione che si pone su una posizione di equilibrio tra regola dispositiva del processo civile e necessità che lo stesso abbia come primaria finalità. quella di accertamento di fatti veri e giungere, quindi da parte del Giudice, ad una decisione giusta.[7]
In definitiva, quindi, il consulente compie un’attività finalizzata ad accertare dei fatti o a dar loro una valutazione, senza però spingersi nell’attività di giudizio in senso stretto, vale a dire il confronto tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, allo scopo di specificare la l’articolo di legge da applicare al caso concreto.
Fonte: “La grafologia nel processo civile: la figura e l’attività del consulente tecnico d’ufficio” di Tonino Addesse Scuola Superiore di Grafologia presso Pontificia Facoltà Teologica S. Bonaventura” Roma
[1] sito Leggi d’Italia Professionale http://bd05.leggiditalia.it/
[2] Cfr. Dr. Nicola Cosentino – Giudice presso il Tribunale di Verbania – Relazione La consulenza tecnica d’ufficio facente parte degli atti del convegno La Consulenza tecnica in materia civile e penale svoltosi in Verbania Pallanza – Palazzo di Giustizia, in data 11 Marzo 2006 – sito internet http://www.ordineavvocativerbania.it/ForoVerbanese/22/page3.html
[3] Art. 99 c.p.c. Principio della Domanda: “Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente.” – Art. 112 c.p.c. “Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato”: Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti. – Art. 115 c.p.c.“Disponibilità delle prove” :” . Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero. II. Può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.” – Da www.leggiditalia.it
[4] G. Di Marco, M. Sichetti (2010), L’attività del C.T.U. e del Perito, Giuffrè, Milano, p. 6.
[5] G. Di Marco, M. Sichett (2010), L’attività del C.T.U. e del Perito, Giuffrè, Milano, p. 6.
[6] Art. 2697 c.c. “Onere della prova”: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio [c.p.c. 99, 100] deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento [c.c. 69, 483, 1218, 1221, 1928, 1988]. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda [c.c. 2728; c.p.c. 115, 191]” dal sito: http://bd05.leggiditalia.it/cgi- bin/FulShow?NAVIPOS=1&DS_POS=0&KEY=05AC00001364&FT_CID=8404&OPERA=05#1
[7]. Cfr. Dr. Nicola Cosentino – Giudice presso il Tribunale di Verbania – Relazione La consulenza tecnica d’ufficio facente parte degli atti del convegno La Consulenza tecnica in materia civile e penale svoltosi in Verbania Pallanza – Palazzo di Giustizia, in data 11 Marzo 2006 – sito internet http://www.ordineavvocativerbania.it/ForoVerbanese/22/page3.htm
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